Salviamo il “suicidio”: non esiste basket senza sacrificio
01 marzo 2016

Ore 00.24. Entro in casa, lascio la borsa disperatamente a marcire per terra, mi spoglio trascinando i piedi e poi, finalmente, mi sdraio nel letto. Ho finito da un’ora allenamento e le gambe appena toccano il comodo materasso iniziano ad irrigidirsi. Sono stanco lo ammetto, non sono più un giocatore di pallacanestro da quasi cinque anni, perciò è normale che i traumi del post-allenamento si moltiplichino su di me. Eppure quest’anno mi sono impegnato, mi sono promesso di fare almeno una seduta a settimana, perché la voglia di giocare aumenta proporzionalmente al tempo che passa dal giorno in cui ho detto basta. E così ho fatto, anzi, mi sento quasi più forte di cinque anni fa. Però stasera ho le gambe dure, mi sento rigido, indolenzito, come se fosse stato il primo giorno di preparazione dopo i tre mesi estivi. Deve essere successo qualcosa, qualcosa di particolare, che mi ha stancato più del solito. Fammi pensare… ah sì, oggi per la prima volta nella mia vita ho fatto un suicidio in 26 secondi. È uno dei giorni più commoventi della mia carriera.
Prima di spiegare da dove arrivi tanta celebrazione, vorrei spendere due parole su cosa sia il suicidio, per i neofiti del settore. Chiamasi suicidio quella tortura psicofisica che gli allenatori utilizzano come punizione quando qualcosa non va come dovrebbe andare. Spiegato in breve, consiste nel correre dalla linea di fondo campo a quella del tiro libero, tornare indietro, ricorrere fino a metà campo, tornare indietro e ripetere il movimento per l’altra linea del tiro libero e per la linea di fondo opposta. Il tutto entro un tempo prestabilito, che varia generalmente dai 34 ai 30 secondi (almeno nelle categorie infime in cui ho prestato i miei talenti). Detta così parrebbe poco, ma quei cambi di direzione secchi e glaciali, nei quali lasci la strisciata di gomma sul parquet, sono a dir poco deleteri, sia per le caviglie sia per i quadricipiti sia per il fiato. Insomma, un suicidio.
Io non sono di certo l’emblema del giocatore di pallacanestro. Sono un metro e sessantasei (scarsi) e nella mia vita faccio si e no due scatti al mese, di cui uno, sicuramente, è quando sento mia madre dire “a tavola” il giorno di lasagne al forno. Per cui, si capisce bene, che se già Madre Natura si sia comportata da cagna concedendomi i pochi centimetri che mi ha concesso, non ha di sicuro cercato di rimediare quando distribuiva velocità e rapidità. Però, perché c’è un però, negli ultimi due anni ho capito che non potevo vivere di pigrizia e patatine, pertanto ho deciso di mettermi in forma. Qualche ora spesa in palestra, qualche corsetta, qualche allenamento e qualche sacrificio in più con la forchetta in mano ed ecco che mi sono trovato a perdere qualche chilo di troppo che, invece, da giocatore mi portavo appresso. Dunque capirete di come sia stato entusiasmante fare il mio primo suicidio dopo tanto tempo e finire non solo sotto i 30 secondi, ma addirittura in anticipo di quattro. Io che di solito ero il più odiato della squadra, perché arrivare fuori tempo massimo comportava la drammatica ripetizione collettiva della punizione. E se ad arrivare ultimo non era il lungo, bensì il più nano del gruppo, la cosa faceva incazzare parecchio.
Infatti è questo il bello/brutto del suicidio. Fa male, fa un male cane, eppure è il momento in cui sei obbligato a dare il centodieci per cento, perché non farlo vorrebbe dire due cose: ripeterlo ed essere odiato dagli altri che per colpa tua devono subire la stessa pena. Negli sport di squadra e mi piace pensare nel basket in particolare (o meglio, nel basket in cui sono cresciuto), non esiste il concetto di individuo. Sì, c’è la gloria personale per un ottima prestazione, ma quella gloria sarebbe fine a se stessa se non porta con sé una vittoria della squadra. Così, come un canestro aggiunge due punti al tabellino di chi l’ha segnato, ma ancor più regala due punti alla squadra, anche nelle disgrazie si deve affondare tutti insieme. Perché una squadra è, come un diamante, per sempre. A differenza del diamante però, che puoi rivendere alla prima difficoltà, la squadra non può essere abbandonata. Si è tutti colpevoli, così come si può anche essere tutti meritevoli. Non si fanno distinzioni, almeno in una visione complessiva.
La mia vita convive ogni giorno con la pallacanestro, sia per mestiere sia per passione. E per quanto mi sforzi a contemplare la sua bellezza mai scalfita dal passare del tempo, mi rendo però sempre più conto di come la società si evolva e di come con essa si perdano dei valori che io ho sempre dato per scontato. Questo non lo dico perché mi ritenga migliore, ma perché “ai miei tempi” (ho ventitré anni e già devo ricorrere a questa frase) semplicemente c’erano, attorno allo sport degli obiettivi e delle finalità differenti da quelle che intravedo oggi in alcuni ragazzi più giovani. Se per me era un ossessione, uno sfogo, oggi mi sembra più un passatempo, un favore da fare ai genitori che vogliono a tutti i costi far fare ai figli del “fitness”. Perdonatemi il turpiloquio, ma “fitness” è una parola di merda, che ha rovinato lo sport nei suoi livelli più bassi. Io non parlo infatti dei professionisti o dei predestinati, quelli fanno una vita a parte, ma di un tredicenne “sfigato” che prende la sua borsa per andare a giocare a basket. Se nel mentre in cui mette le scarpe nella sacchetta pensa “che palle, anche oggi mi toccherà correre”, quel ragazzino non farà mai il salto di qualità. Salto di qualità che vuol dire sia fare il suicidio in meno del tempo stabilito sia innamorarsi dell’attività che svolge e dei suoi valori, tra cui il sacrificio per il bene degli altri. Lo sport di squadra non è semplice passatempo, non è qualcosa che puoi prendere alla leggera, perché essendo di squadra ci può essere qualcuno all’interno del gruppo che non la pensi nel tuo stesso modo.
Perciò muoio dentro nel vedere gli occhi dei ragazzi patire il peso della noia, quasi della depressione, quando entrano in palestra o quando devono fare un suicidio. Dovrebbero provare odio o cattiveria, sentimenti che mescolati alla competizione ed allo spirito guerrafondaio della stessa, conducono irrimediabilmente alla passione. Il “fitness”, cari ragazzi, lasciatelo ai vostri genitori ed ai loro insegnanti di yoga. Voi dovete solo preoccuparvi di sputare sangue in campo e capire che le due ore di allenamento (con o senza suicidio) dovrebbero essere le ore più intense e faticose della giornata, ma anche quelle che ti fanno arrivare a casa soddisfatto di aver fatto del bene a te stesso ed agli altri dieci scemi che chiami compagni di squadra. Non sarete Curry o LeBron, ma come voi ce ne sono a milioni. Loro sono solo due casi particolari, noi siamo solo l’assoluta normalità. E la vita, in fondo, è straordinaria proprio perché normale, purché sia vissuta.
Mattia Pintus